Sandor Marai in questa lunga riflessione autobiografica non smentisce la sua peculiarità di autore intimista. Il racconto, effettuato in uno stile asciutto ma intriso da una profonda amarezza ,evidenzia il profondo malessere dell’autore posto davanti ad un bivio amletico: parlare o tacere sul proprio dissenso che lo condurrà all’esilio? (anche se tacere , talvolta “è più rischioso del parlare”). I suoi ricordi ripercorrono la storia dell’Ungheria all’indomani dell’Anchluss e in un arco decennale analizzano spietatamente le cause della rovina dell’Ungheria, dal disfacimento dell’impero austro-ungarico, alla mancata capacità di operare una seria riforma agraria che cancelli l’immobilismo feudale, all’avvento e alla diffusione del nazismo e del fascismo di Horthy, all’entrata in guerra dell’Ungheria. Eppure, paradossalmente, all’indomani dell’’Anchluss non si stava tanto male in Ungheria al punto che anche gli ebrei , malgrado il montare della ondata nazista, non erano rastrellati con quella metodicità seguita in altri paesi. Le cose cambiano con la dichiarazione di guerra all’Unione Sovietica , da lì…il disastro totale, perché alla fine l’U.S. soffocherà qualsiasi anelito libertario ungherese imponendo un regime autoritario se non dittatoriale. Molto acuta, anche, l’analisi che Marai compie sul ruolo della borghesia, classe nata dalla felice congiunzione degli ideali umanistico-rinascimentali e illuministici e i cui rappresentanti diventano oggetto di odio spietato sia delle ideologie di Destra che di Sinistra. Memorie davvero interessanti da leggere perché fanno conoscere il punto di vista di un ungherese su un momento storico tragico per l’umanità intera.