Seconda puntata della trilogia dedicata dall’autrice all’Irlanda di metà Ottocento, paese che trova la sua rappresentante in Grace O’ Malley moglie del patriota Morgan morto in carcere e divenuto punto di riferimento di tutti quei giovani irlandesi che aspiravano ad una patria libera dal dominio inglese. Il libro è legittimato alla lettura per la dimensione storica che fa emergere. Non sono tanto le avventure che vive Grace, le sue sofferenze , le rinunce anche strazianti che è costretta a fare a costituire l’aspetto più intrigante del libro quanto il realismo con cui la Moore racconta le vicissitudini di un popolo , costretto da una delle carestie peggiori della storia a salire su velieri rattoppati per cercare , al di là dell’oceano, di costruirsi una nuova vita in quella che appare la Terra promessa. Osserviamo così prima il brulichio di una massa di poveri derelitti cenciosi che si aggira per le viuzze di Liverpool , porto da cui salpano le navi, poi nella stiva della nave dove si dibattono tra febbri , morte, fame , violenze e infine per le vie di New York, in quell’America che non si dimostra poi così materna ed accogliente come appariva a distanza. Ingiustizie, corruzione, ancora violenze, mancata integrazione caratterizzano la vita della massa di emigrati che si riversa sulle sponde di quel paese spacciato per luogo di libertà e democrazia. Un buon ritratto della questione irlandese.